IV

L’UNIONE DEL NATURALE E DEL MERAVIGLIOSO

Uno degli elementi fondamentali e caratteristici della grande poesia ariostesca è costituito da quella unione e fusione del naturale e del meraviglioso, del reale e del fantastico, su cui ha insistito tutta la migliore critica a partire fin dal Settecento e dalla acuta intuizione di Antonio Conti, passando per il Foscolo (secondo il quale, come abbiamo visto, le cose piú irreali «vengono tutte rappresentate dall’Ariosto come se fossero creazioni fantastiche veramente della natura»[1]), fino all’importante saggio del Momigliano, che approfondisce questa particolare dimensione del mondo poetico ariostesco con larga ricchezza e varietà di analisi puntuali. Addirittura si è parlato, e lo abbiamo visto nel breve cenno alla storia della critica, di una specie di «terzo mondo»: e noi potremmo dire un «sopra-mondo» rinascimentale, nato appunto dalla fusione del reale e del sopra-reale, del naturale e del meraviglioso, di modo che il meraviglioso, portato a volte fino all’estremo limite del magico, non svapora mai nello svolazzo fumoso e non perde mai il sussidio del senso della realtà, mentre la realtà, a sua volta, non resta mai ad un livello puramente fotografico, non è mai ripresa, imitata nelle sue forme piú immediate e veristiche.

E va ripetuto che questo particolare mondo ariostesco non è altro che la realizzazione individualmente poetica di quelle esigenze di equilibrio tra naturalismo e idealismo platonico, cosí fortemente sentite dall’Ariosto, in linea con le piú vive richieste della civiltà rinascimentale. Si tratta dunque di un sopramondo rinascimentale, quasi l’unico paradiso che quell’epoca poteva sognare: esso viene costruito non per un abbandono ad una casuale felicità di ispirazione ingenua, ma attraverso le linee di un metodo sicuro e cosciente, attraverso un lavoro poetico che comporta precise ricerche di carattere tecnico.

Il metodo dell’Ariosto, prendendo un lato, un punto della realtà, ne crea appunto una soprarealtà che in nuove dimensioni fantastiche riesce a mantenere il tono naturale della comune visione del quotidiano. Possiamo prendere un esempio preciso di questo metodo riferendoci al canto VIII, quando Ruggiero, in fuga dal regno di Alcina per recarsi presso la buona maga Logistilla, si imbatte in un servo di Alcina, che comincia per presentarsi al lettore in una lucida definizione di elementi reali e concreti, individuati e illuminati con la massima evidenza:

Il servo in pugno avea un augel grifagno[2]

che volar con piacer facea ogni giorno,

ora a campagna, ora a un vicino stagno,

dove era sempre da far preda intorno:

avea da lato il can fido compagno:

cavalcava un ronzin non troppo adorno.

Ben pensò che Ruggier dovea fuggire,

quando lo vide in tal fretta venire.

(VIII, 4)

Eppure già qui si nota la diversione verso un atteggiamento diverso da un realismo e da un descrittivismo troppo minuto, evidente soprattutto nel sesto verso, in cui nel ritmo claudicante e un po’ comico è chiara l’intenzione di un rallentamento: per cui l’immagine tende a diventare ambigua e allungata, bizzarra e pur non sfocata. Si tratta qui di un espediente tecnico usato assai spesso dall’Ariosto e che potrà essere definito col termine di «deformazione», mettendolo in parallelo con certi atteggiamenti analoghi della pittura quattrocentesca (si pensi, ad esempio, alla deformazione del volto della Primavera botticelliana). E se nell’ottava citata prevale pur sempre una presenza di elementi concreti e minuti (anche se appunto deformati dal tono di quel sesto verso), nelle successive, quando il servo vuole ostacolare il cammino di Ruggiero, gli stessi elementi subiscono una piú larga deformazione, nel loro senso rappresentativo, venendo utilizzati con bizzarria suggestiva per creare un’aria metafisica e irreale, sotto la spinta di un ritmo eccitato:

Spinge l’augello: e quel batte sí l’ale,

che non l’avanza Rabican[3] di corso.

Del palafreno il cacciator giú sale,

e tutto a un tempo gli ha levato il morso.

Quel par da l’arco uno aventato strale,

di calci formidabile e di morso;

e ’l servo dietro sí veloce viene,

che par ch’il vento, anzi che il fuoco il mene.

Non vuol parere il can d’esser piú tardo,

ma segue Rabican con quella fretta

con che le lepri suol seguire il pardo.

Vergogna a Ruggier par, se non aspetta.

Voltasi a quel che vien sí a piè gagliardo;

né gli vede arme, fuor ch’una bacchetta,

quella con che ubidire al cane insegna:

Ruggier di trar la spada si disdegna.

Quel se gli appressa, e forte lo percuote,

lo morde a un tempo il can nel piede manco.

Lo sfrenato destrier la groppa scuote

tre volte e piú, né falla il destro fianco.

Gira l’augello e gli fa mille ruote,

e con l’ugna sovente il ferisce anco:

sí il destrier collo strido impaurisce,

ch’alla mano e allo spron poco ubidisce.

(VIII, 6-8)

E infine, quando Ruggiero solleva il drappo dello scudo fatato, il cui effetto è di far cadere a terra ogni essere animato, gli stessi elementi, già sfrenatisi in questa bizzarra fantasia, tornano a risolversi nella loro condizione comune e naturale:

Levò il drappo vermiglio in che coperto

già molti giorni lo scudo si tenne.

Fece l’effetto mille volte esperto

il lume, ove a ferir negli occhi venne:

resta dai sensi il cacciator deserto,

cade il cane e il ronzin, cadon le penne,

ch’in aria sostener l’augel non ponno.

Lieto Ruggier li lascia in preda al sonno.

(VIII, 11)

Numerosi sono i simboli concreti di questa fusione del naturale e del meraviglioso, che spesso si attua attraverso una sottile e poco vistosa tecnica deformante. Si pensi all’ippogrifo, il famoso cavallo alato di Atlante, di cui si servono Ruggiero e Astolfo per le loro aeree peregrinazioni: magica fusione di un cavallo e di un uccello, su cui il linguaggio ariostesco si esercita a limitare e ad aprire la sua precisazione poetica della realtà fantastica attraverso questa tecnica della deformazione; cioè con un richiamo non tanto a paragoni grotteschi, quanto a dissonanze che ci insegnano una natura diversa dalla semplice idealizzazione di quella comune. Ecco il fantastico uccello che porta nell’aria Ruggiero fino all’isola di Alcina (e si noti come il primo verso faccia vedere un che di favoloso e di enorme, di deformato appunto, che risulta dalla posizione staccata e quasi goffa, rallentata delle parole):

Quello ippogrifo, grande e strano augello,

lo porta via con tal prestezza d’ale,

che lascieria di lungo tratto quello

celer ministro del fulmineo strale.

Non va per l’aria altro animal sí snello,

che di velocità gli fosse uguale:

credo ch’a pena il tuono e la saetta

venga in terra dal ciel con maggior fretta.

Poi che l’augel trascorso ebbe gran spazio

per linea dritta e senza mai piegarsi,

con larghe ruote, omai de l’aria sazio,

cominciò sopra una isola a calarsi,

pari a quella ove, dopo lungo strazio

far del suo amante e lungo a lui celarsi,

la vergine Aretusa passò invano

di sotto il mar per camin cieco e strano.

(VI, 18-19)

Altro simbolo del tono particolare del fantastico ariostesco può essere considerato il palazzo di Atlante, che è sorto immediatamente per semplice volontà magica del suo costruttore, e dove per incanto tutti i cavalieri si perdono a inseguire le parvenze di quello che cercano e desiderano, e l’invisibile padrone del palazzo, in un movimento perfettamente realizzato che scopre e assorbisce in ritmi fantastici e musicali le incongruenze e le irrazionalità della vita:

Tutti cercando il van, tutti gli dànno

colpa di furto alcun che lor fatt’abbia:

del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;

ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia;

altri d’altro l’accusa: e cosí stanno,

che non si san partir di quella gabbia;

e vi son molti, a questo inganno presi,

stati le settimane intiere e i mesi.

(XII, 12)

Poi questo palazzo incantato si dileguerà leggermente, attraverso una semplice ed elementare operazione magica, che Astolfo apprenderà da un libro che porta sempre con sé:

Astolfo, poi ch’ebbe cacciato il mago,

levò di su la soglia il grave sasso,

e vi ritrovò sotto alcuna imago,

et altre cose che di scriver lasso:

e di distrugger quello incanto vago,

di ciò che vi trovò, fece fracasso,

come gli mostra il libro che far debbia;

e si sciolse il palazzo in fumo e in nebbia.

(XXII, 23)

Ma pure nella sua aria di incanto, nella sua disponibilità cosí largamente fantastica, lo stesso palazzo trova, nella sua effimera vita ed essenza, una splendida sontuosità, fino a presentarsi come qualcosa di concreto, di reale, come, diremmo, un vero e proprio palazzo rinascimentale. L’incantatore Atlante, tra l’altro, non ha dimenticato di rifornirlo di mense e di vivande, come se appunto si trattasse di un palazzo come tutti gli altri, pronto ad offrire ai suoi ospiti i piaceri e gli agi piú quotidiani:

E mentre fa lor far quivi dimora,

perché di cibo non patischin brama,

sí ben fornito avea tutto il palagio,

che donne e cavallier vi stanno ad agio.

(XII, 22, vv. 5-8)

Anche nelle rappresentazioni degli effetti magici piú prodigiosi e piú straordinari resta vivo questo senso della realtà che produce una incantevole illusione di cose irreali, eppure come naturali, come se potessimo in qualche modo viverci concretamente in mezzo. Si pensi ad una delle piú famose avventure ariostesche quale è quella dell’episodio di Orrilo, personaggio mostruoso e miracoloso, che esercita una bestiale violenza, sulla foce del Nilo, pronto ad uccidere tutti i cavalieri che gli si fanno incontro. Dotato di una forza prodigiosa e straordinaria, egli non può venire mai sconfitto ed ucciso, se non gli viene strappato dalla chioma un capello fatale; nessuna ferita può arrecargli la morte e, anche se ridotto in mille pezzi, può riconnettere le sue membra rapidamente e miracolosamente. Ed ecco come l’Ariosto rappresenta la scena in cui Astolfo assale con le sue armi Orrilo, ferendolo ripetutamente, senza tuttavia riuscire a privarlo veramente della vita:

Or cader gli fa il pugno con la mazza,

or l’uno or l’altro braccio con la mano;

quando taglia a traverso la corazza,

e quando il va troncando a brano a brano:

ma ricogliendo sempre de la piazza

va le sue membra Orrilo, e si fa sano.

S’in cento pezzi ben l’avesse fatto,

redintegrarsi il vedea Astolfo a un tratto.

(XV, 82)

Solo troncandogli la testa, e portandola lontano, per strapparne poi il capello fatale, Astolfo potrà farlo morire:

Al fin di mille colpi un gli ne colse

sopra le spalle ai termini del mento:

la testa e l’elmo dal capo gli tolse,

né fu d’Orrilo a dismontar piú lento.

La sanguinosa chioma in man s’avolse,

e risalse a cavallo in un momento;

e la portò correndo incontra ’l Nilo,

che riaver non la potesse Orrilo.

Quel sciocco, che del fatto non s’accorse,

per la polve cercando iva la testa:

ma come intese il corridor via tôrse,

portare il capo suo per la foresta;

immantinente al suo destrier ricorse,

sopra vi sale, e di seguir non resta.

Volea gridare: – Aspetta, volta, volta! –

ma gli avea il duca già la bocca tolta.

(XV, 83-84)

Ecco infine come, dopo aver cercato di ritrovare il capello, Astolfo fuggendo riesce a tagliare tutta la chioma, e cosí anche lo stesso capello prodigioso:

E tenendo quel capo per lo naso,

dietro e dinanzi lo dischioma tutto.

Trovò fra gli altri quel fatale a caso:

si fece il viso allor pallido e brutto,

travolse gli occhi, e dimostrò all’occaso[4],

per manifesti segni, esser condutto;

e ’l busto che seguia troncato al collo,

di sella cadde, e diè l’ultimo crollo.

(XV, 87)

Tutto l’episodio appare dunque, nella luce della strana e magica figura dell’essere che può perfino correre privo della testa, affidato ad un prodigio insieme bizzarro e grottesco: ma ogni particolare, ogni elemento della scena viene presentato con un vivo senso della realtà concreta, nella dimensione quasi delle cose normali, che realmente accadono davanti ai nostri occhi; mentre ogni trovata, anche se ricca delle piú intense e varie suggestioni, vale soprattutto come frizzante elemento della continua linea funzionale di quel ritmo ariostesco di cui già abbiamo parlato.

E potremmo soffermarci, nella stessa direzione, su una infinità di effetti prodigiosi e insieme agevoli, assurdi e verosimili; anche per esempio, in un semplice paragone:

Qual istordito e stupido aratore,

poi ch’è passato il fulmine, si leva

di là dove l’altissimo fragore

appresso ai morti buoi steso l’aveva;

che mira senza fronde e senza onore

il pin che di lontan veder soleva [...].

(I, 65, vv. 1-6)

Qui il fatto è evidenziato nella sua naturale realtà, e nello stesso tempo si rivela sospeso in un fulmineo prodigio – l’improvviso sfrondarsi di un pino – pur assunto in un’aria di tranquilla semplicità. E ancora si veda la leggerezza con cui certi gesti di magia si fanno sorridenti e semplici e sembrano perfino ampliare in un respiro senza limite i desideri umani di un prolungamento della realtà in possibilità di sogno libero, ma concreto come la realtà: ecco come viene rappresentato il rapimento dalla donna di Pinabello da parte di Atlante a cavallo dell’ippogrifo:

Tosto che ’l ladro, o sia mortale, o sia

una de l’infernali anime orrende,

vede la bella e cara donna mia;

come falcon che per ferir discende,

cala e poggia in uno atimo, e tra via

getta le mani, e lei smarrita prende.

Ancor non m’era accorto de l’assalto,

che de la donna io senti’ il grido in alto.

(II, 38)

Questo improvviso passaggio dalla terra al cielo si svolge con una agevolezza estrema, evidenziata dalla percezione improvvisa del fatto straordinario, da parte del cavaliere, quando ode il grido della donna rapita che già sta in alto, quando cioè l’evento è già realizzato, entrato, in un certo senso, in una dimensione concreta.

Sono effetti, impressioni fantastiche di salti e voli, che si presentano innumerevoli nell’Orlando Furioso e che sono sempre seguiti come i dati di una realtà fisica superiore alla nostra, ma non opposta, pervasa dallo stesso colore di concretezza che nessun «realista» saprebbe ottenere: e si veda ancora, per concludere, in quale tono fantastico e insieme naturale si presenta lo scempio che Orlando impazzito fa di un povero asino:

Orlando non risponde altro a quel detto,

se non che con furor tira d’un piede,

e giunge a punto l’asino nel petto

con quella forza che tutte altre eccede;

et alto il leva sí, ch’uno augelletto

che voli in aria, sembra a chi lo vede.

Quel va a cadere alla cima d’un colle,

ch’un miglio oltre la valle il giogo estolle[5].


1 U. Foscolo, Sui poemi narrativi, in Opere, ed. naz. cit., vol. XI, p. 122.

2 Nota grifagno: rapace.

3 Rabicano è il cavallo appartenente ad Astolfo, cavalcato in questa occasione da Ruggiero.

4 Nota all’occaso: alla fine, alla morte.

5 Nota estolle: innalza.